Lucio Dalla e me (e noi)

In un garage di una casa di Fondi, un paese all’inizio del Sud, è appeso un manifesto pubblicitario. Sta lì dalla metà degli anni Ottanta. In parte è coperto da vari attrezzi e scorie, la solita roba che si accumula nei garage. Il manifesto è una pubblicità di una ditta di latticini. Fotografato in panama e occhialini – la sua divisa tipica di quegli anni – Lucio Dalla guarda sorridente dal muro. Il réclame dice che se compri un tot di prodotti puoi vincere le sue cassette. O almeno credo che dica così: non ci ho mai fatto tanto caso, al réclame. Una sua cassetta l’avevamo già, e ci bastava. È per via di quella cassetta, The best of Lucio Dalla, che il manifesto è appeso in garage (e che io sto scrivendo queste righe). L’ha preso mio padre nell’alimentari dietro il castello. Siamo entrati nell’alimentari, io e mio padre, abbiamo riconosciuto quella faccia familiare e simpatica in vetrina, mio padre ha chiesto di staccarsi il poster e l’ha fatto. Io non ricordo di aver chiesto niente. Avrò avuto al massimo cinque anni. Non ho mai chiesto niente in vita mia, ho sempre sentito una vergogna immensa nel fare richieste. Poi la pubblicità doveva parermi brutta già allora. Però di sicuro avevo notato la faccia di Dalla, di sicuro gli avevo restituito un sorriso – senza certo pensare di portarmela a casa! Credo proprio sia stata un’iniziativa di mio padre. Ha chiesto al bottegaio, ha staccato il manifesto, l’ha attaccato in garage, punto. Siamo usciti dall’alimentari contenti per questa scemenza che, in quel momento, riguardava solo noi due.

Lucio Dalla è la presenza di cui serbo il ricordo più antico, a parte i parenti prossimi. Lucio Dalla c’è sempre stato. C’era la mia famiglia, e la cassetta The best of Lucio Dalla in macchina. Nella Delta, poi nella station wagon. Praticamente uno di famiglia pure lui, occhialini, basco, barba, strani versi, clarinetto, piano, tutto compreso. Era famosissimo, ma per me era come se lo conoscessimo solo noi, e dopo, un pochino, tutti gli altri (Dalla si vedeva poco anche in tv e non andava a Sanremo). Io non potevo rendermi conto. Avevo capito soltanto che c’era sempre qualcuno che andava di moda, c’erano tanti altri cantanti famosi e amati dai ragazzini. La radio trasmetteva altro, ma io della radio non sapevo nulla. Mai ascoltata. Inoltre il pop e il rock erano, nella visione paterna, lo sterco del demonio, né più né meno. La musica, per me, era soltanto quella cassetta rosata. Per lunghi, lunghissimi anni io e i miei non ci siamo preoccupati di sentire altro. Neanche nei lunghi viaggi autostradali per andare sulla neve. La mettevamo andando da Latina a Fondi e da Fondi a Latina ogni fine settimana. Sessanta chilometri di Via Appia, andata e ritorno, da “Futura” a “Mambo”. In mezzo, quasi tutti i classici (che potete riascoltare dal post qui sotto). Con al primo posto “L’anno che verrà”, un vero inno per la mia famiglia. Era la canzone preferita di tutti. Oggi sono convinto che “Com’è profondo il mare” sia superiore, ma forse l’emozione più profonda me la dà ancora quell’inconfondibile attacco di piano.

Mi è andata bene, a ripensarci. Potevo essere traviato per sempre da qualche bruttura commerciale, e commuovermi ancora oggi per della robaccia. Invece no. Il mio affetto per Dalla è ormai irrazionale, ma per fortuna alla base c’è della bellezza vera. Io e i miei ci eravamo attaccati a qualcosa di davvero bello. Le canzoni di Dalla sono uniche, non assomigliano a quelle di nessun altro. Ed era unico lui. In fondo, ci faceva simpatia anche la sua figura di ometto buffo, peloso, piccolo, strano, ironico, che quando cantava ogni tanto faceva strani rumori – lo scat singing! – e si divertiva a rifare l’eco ai versi – bellissimi – che aveva appena pronunciato (non siamo stati i soli. Basta pensare a Fellini, con cui Dalla era amico, come testimonia una bellissima chiacchierata in radio. In Ginger & Fred c’è una scena con dei sosia di Lucio Dalla, chiaramente è un omaggio: in quel periodo, al regista piaceva anche andare ai concerti del suo conterraneo). Era fuori dagli schemi, ed era questo che, in primis, attraeva mio padre. La simpatia per Dalla era uniforme da parte mia, di mia madre, di mio padre, e poi lo sarebbe stata da parte di mio fratello. È stato qualcosa che ci ha unito. Ci unisce ancora oggi, e mi dispiace molto ora non poter portare mai più mia madre a vedere un concerto di Lucio Dalla, meglio se in coppia con De Gregori. Anche se, dopo la morte di mio padre, ho sempre saputo che un’iniziativa simile sarebbe stata a fortissimo rischio lacrimoni, tipo quelli che abbiamo appena versato al telefono, io da Milano e lei da 712 chilometri più giù. Dalla e le sue canzoni hanno avuto un effetto unificante sulla mia famiglia, che si è sempre divertita a trovare mille motivi per litigare di continuo. Non è poco.

Per questo, mi sembrò naturale afferrare un’occasione per incontrarlo. Successe a Roma, all’Università La Sapienza. Una presentazione del libro con i suoi testi. Non scriveva grandi canzoni da anni, ma non importava. Non ricordo quasi nulla di quello che dissero Vincenzo Mollica e Giulio Ferroni (che non a caso ha scritto un commento sul Messaggero per la morte del cantante, svelando che avevano la stessa età). Quello che diceva Dalla non si capiva al 100%, il suo accento bolognese masticava le parole e ogni tanto le mangiava del tutto. Ricordo però chiaro il senso: la grande arte, la vera arte, è sempre popolare. Nasce dal popolo, è per il popolo. Un concetto che, prima di lui, è stato espresso da artisti ben più celebri: Picasso, per dirne solo uno. Dalla lo illustrò con un esempio spiazzante, in pieno stile dalliano: «Bjork è più vicina a Totò che a Barbra Streisand», proclamò gesticolando. Come dargli torto? Alla fine della conferenza, mi avvicinai alla cattedra con un cd in mano. L’album omonimo del 1979, quello perfetto, che si chiude proprio con “L’anno che verrà”. Volevo un autografo dal mio vecchio amico, mai visto così da vicino. Una richiesta un po’ infantile, non a caso. Mentre firmava, presi fiato e coraggio per dirglielo: «Sai Lucio, è colpa tua se ho detto la mia prima parolaccia. A tre anni avevo imparato a memoria “Disperato Erotico Stomp”, ripetevo “puttana” e i miei mi rimproveravano subito». Lui si girò divertito: «Ah! Mi hai dato una grande soddisfazione!» Disse proprio così, allungando la “a” di grande e trasformando la “z” di soddisfazione in “s”, come pretendeva il suo dialetto. Oggi rimango col ricordo di quella soddisfazione, che da sola pareggia le soddisfazioni che lui ha dato a me. Un’epoca se n’è andata, com’è giusto che sia. Non tornerei indietro, all’infanzia, per tutto l’oro del mondo. Ma potrei racchiuderne la parte buona in un nastro, per avere una risposta ogni volta che mi fermerò a chiedermi cosa sarà che fa crescere gli alberi, la felicità.

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Barba, occhiali, berretto scuro e canzoni perfette. Lucio Dalla 1977-1981

1979

“Per cinque anni – e precisamente dal 1977 al 1981 – Lucio Dalla ha rasentato la perfezione, come forse mai nessuno nella musica leggera italiana prima e dopo di lui. Gli album Come è profondo il mare (1977), Lucio Dalla (1979) e Dalla (1980) – con il corollario del live Banana Republic (1979) in collaborazione con De Gregori e del mini-lp Dalla Q-Disc (1981) – testimoniano una creatività straripante e soprattutto una felicità assoluta; felicità intesa come gioia pura del cantare e fare musica, libido nell’atto creativo che magicamente lascia traccia di sé negli esiti: ascoltare Dalla, quel Dalla, migliora la qualità del tempo speso a farlo non tanto perché ci si sente intellettualmente sollecitati o perché si resta intrappolati dal potere incantatorio della musica, ma perché quelle note, quella voce sprigionano un’energia positiva davvero contagiosa. E questo, nonostante il mondo che lui racconta sia sempre sull’orlo della catastrofe” (Da Canzone Italiana, 1861-2011, storia e testi a cura di Leonardo Colombati)

Nel 1977 Lucio Dalla si separò da Roberto Roversi e, incoraggiato dalla stesso poeta, iniziò a scrivere i suoi versi. Prima creazione: “Com’è profondo il mare”, una delle due o tre più grandi canzoni italiane di sempre. Niente male per un esordiente, eh? Dalla la fece sentire all’amico Francesco Guccini, che rimase sbalordito: “Questa volta Lucio m’ha proprio steso“, commentò. Da lì, per quattro anni, fu un’ascesa continua, sia artistica che commerciale. All’inizio degli anni Ottanta, Dalla era il musicista più popolare d’Italia. Lo era diventato senza aver subissato il pubblico di melassa sentimentalista, e anzi proponendo canzoni con molti spunti d’originalità, attente alla vita reale ma animate da trasfigurazioni fantastiche. Aveva individuato una formula perfetta, che salvava la qualità artistica e aveva un appeal irresistibile per le masse. Glielo riconobbe lo stesso Fabrizio De André, affermando che Dalla era l’unico ad aver saputo combinare la scrittura cantautorale con la potenza di suono di un’ottima rock band. Non è un caso che abbia saputo parlare, con fascino intatto, alla generazione di chi scrive come a quella dei suoi genitori. Pensate a cosa sta in vetta alle classifiche oggi, e fatevi venire un brivido di tristezza.

1980

Gli album fondamentali sono tre. Com’è profondo il mare, nel 1977, inaugura il nuovo corso. Nel 1979 esce Lucio Dalla, che si potrebbe considerare il suo disco perfetto, un po’ come La voce del padrone per Battiato. L’anno dopo è la volta di Dalla: il gruppo è sempre più rodato e le sonorità sono più piene e metalliche, venate di scuro.  Queste canzoni sono a tutt’oggi una sorta di patrimonio collettivo, come ha dimostrato il momento di commozione seguito alla notizia della scomparsa del loro autore (l’avete vista la prima pagina della Gazzetta dello Sport?). Qui sotto, le nostre preferite: le magnifiche quindici, in ordine non cronologico.

1977

Com’è profondo il mare

Puro genio. «Un poema, uno sfavillio di colori, suoni, profumi, invenzioni, uno scatenamento della fantasia e della libertà più sfrenate. Una fantasia e una libertà che non sono mai fuga dalla realtà, ma un linguaggio nuovo per descriverla e comprenderla tutta» (Marco Travaglio).  Un unicum, un inedito assoluto nella storia della canzone: inutile cercare qualcosa che gli assomigli, negli anni precedenti e in quelli successivi.

L’anno che verrà

«C’è una certa amarezza che gira per la canzone, perché in fondo è una canzone che parla di noi: “sacchi di sabbia alla finestra”… Li mettono adesso: questo è il paese degli antifurti. È un discorso pessimista, in qualche modo; però c’è, alla fine, il riscatto: anche se l’anno prossimo sarà brutto, io ci voglio essere. È questa la novità» (Dalla). La colonna sonora perfetta per l’uscita dagli anni di piombo anche se la scintilla iniziale non ha nulla di politico, né di sociologico: Dalla la scrisse dopo aver letto La passeggiata di Robert Walser. Il riff di piano iniziale è uno dei più riconoscibili mai scritti, ed è direttamente associato all’immagine di Dalla: se lo sentite, vi viene subito in mente lui.

Disperato erotico stomp

Non c’è niente che non va, nella canzone goliardica per eccellenza, nata sulla spinta della libertà di linguaggi favorita dalla nascita delle radio libere. Secondo Dalla, rappresenta «la risposta a una sorta di moralismo della sinistra. Era l’epoca delle femministe (…). Io ho un rispetto sacro per l’essere umano, non per l’aspetto istituzionale di esso. Per cui “Disperato erotico stomp” era una canzone-provocazione sia nel linguaggio sia nella ragione stessa della canzone». Una volta ascoltata, non la dimentichi più. Certi passaggi del testo sono diventati, a loro modo, proverbiali. «Vinci se diventi riempimento automatico. L’aggiunta che vi vien spontanea a “nel centro di Bologna”, quella è Dalla» (Guia Soncini).

Quale allegria

Cosa significa «sprassolati»?  Dev’essere un termine dialettale bolognese. E chissà chi era Andrea,  uno dei tanti vinti dalliani, il poveraccio «ucciso quindici volte in fondo a un viale per quindici anni la sera di Natale». Poco importa, la melodia è indimenticabile e il senso della canzone è chiaro: la solitudine mai ammessa di tanti, l’angoscia del tran tran quotidiano, l’orrore della routine e della socialità “normale”, «insomma fare finta che sia sempre un carnevale», anche quando si è su un palco e si ha successo.

Cosa sarà

«Cosa sarà che ci fa lasciare la bicicletta sul muro/e camminare la sera, con un amico,
a parlar del futuro?» Domande esistenziali poste con una irrinunciabile ironia, e un bel cammeo di Francesco De Gregori.

Tango

Violino, fisarmonica e una bellissima serie di immagini che assomigliano a un film ambientato nel dopoguerra (quel cielo che da nero sta per diventare rosso non è certo un evento atmosferico…). Ricompare Torino e fanno capolino i treni, presenze ricorrenti nelle canzoni di Dalla. Certi dettagli, certe figure sono davvero fini. «Quella donna che tangava con furore nei locali della croce rossa/fuori era la guerra/nel suo cuore nel suo cuore tanto tango/da unire il cielo con la terra». Oppure il bambino: «Poi arrivati a Torino/ ci siamo commossi in tanti per quel tango/ballato dal bambino./Col coltello fra i denti e i fiori in mano/ballava con aria di questura, l’occhio lontano». 

Cara

«Quanti capelli che hai, non si riesce a contare/sposta la bottiglia e lasciami guardare/se di tanti capelli ci si può fidare…» Forse la canzone più amata dalle donne, e una delle più condivise nei social network in queste ore.

Il cucciolo Alfredo

Bozzetto natalizio milanese, di una tenerezza quasi ricattatoria ma non privo d’ironia: come giustamente ricorda Luca Sofri, «contiene l’equivalente musicale del famoso monologo sulla corazzata Potëmkin di Fantozzi: “la musica andina, che noia mortale: sono più di tre anni che si ripete sempre uguale”».

Futura

L’amore postmoderno, ai tempi della guerra fredda. Ha una struttura originale, con tanto di intermezzo sessual-musicale in stile funky: una cosa che nel 99% dei casi riesce ridicola, e che invece qui si salva, anche grazie alla luna che diventa «una sottana americana».

Balla balla ballerino

«Balla al mistero, in questo mondo che brucia in fretta quello che ieri era vero, dammi retta non sarà vero domani». Trascinante, anche in assenza di certezze.

Anna e Marco

Una favola di periferia, forse la canzone più romantica di Dalla. «Cinema in miniatura, coi due giovani protagonisti che “vivono in periferia il disagio della loro condizione esistenziale, apparentemente senza futuro e destinata a risucchiarli in una vita fatta di routine e fughe in città il sabato sera, per sognare una ipotetica America, simbolo di una dimensione di vita diversa e più gratificante. “Ma l’America è lontana, dall’altra parte della luna” e allora conviene cercare di cambiare almeno qualcosa, visto che non si può cambiare per intero la direzione della propria vita; e quale miglior cambiamento che iniziare una storia d’amore, proprio loro due, Anna e Marco?”» (Colombani).

La sera dei miracoli

Inno nottambulo, scritto da Dalla dopo aver fatto le ore piccole girando in Vespa, completamente sbronzo, nel centro di Roma.

Telefonami tra vent’anni

L’ultima grande ballata dalliana di quegli anni. A malapena comprensibile. Ma irresistibile. Su uno sfondo cosmico vorticano immagini stravaganti: una mongolfiera in volo che «cancella dalla memoria tutto quanto il passato, anche le linee della mano»; il cantante «vestito da torero con una torta in mano»; un telefono che suona alle porte dell’universo… tutto è proiettato nel futuro, da raggiungere «ognuno con i suoi mezzi, magari arrivando a pezzi, su una vecchia bicicletta da corsa, con gli occhiali da sole e il cuore nella borsa». Dettagli ironici, anche buffi, per arrivare alla fine a definire la primavera «inquietante». Chapeau.

Milano

L’omaggio definitivo alla capitale lombarda, a ritmo di bossa nova. «Ragionavo in termini visivo-letterali, anziché musicali: scrivevo quello che “provavo”». Il foglio con il testo di questa canzone, per lui  «un’icona della memoria», Dalla se l’è portato appresso per anni, assieme a un’agenda che racchiudeva gli appunti del periodo.

L’ultima luna

Dalla ricordava di leggere molta letteratura fantastica a quell’epoca, con Philip K. Dick in testa. Probabilmente c’entra qualcosa con gli scenari apocalittici di questo pezzo, «un mondo al suo ultimo giorno con le scimmie per strada, signori eleganti con le orecchie insanguinate» (Colombani).

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Dalla-De Gregori

Francesco De Gregori in queste ore non vuole parlare. Ha fatto sapere che per lui la scomparsa di Lucio Dalla è un momento tristissimo, e niente più. È andato a trovare Michele Mondella, addetto stampa, lo stesso di Dalla. Due vecchi amici in un ufficio, storditi dal dispiacere.

De Gregori deve molto a Dalla, e viceversa. Insieme, sono stati primi in Italia a portare la musica negli stadi, con il tour di Banana Republic, diventato poi un film (che potete trovare per intero qui su YouTube) e un disco dal vivo di successo. E insieme sono stampati nell’immaginario collettivo. Erano complementari. De Gregori veniva dal folk, Dalla dal jazz. Uno era immobile, l’altro sempre in movimento. Il primo austero, il secondo giocherellone. Uniti però da una certa idea di moralità, alla base sia della vita che del lavoro. Non è un caso che le loro canzoni non si siano mai staccate dalla vita reale, neanche le più immaginifiche o le più scherzose. Neanche la bella “Ma come fanno i marinai”, che pure a qualcuno pare un pezzo un po’ ruffiano. Sì, vuole far simpatia a forza, ma a pensarci di cosa parla? Di rotte inconcludenti, di solitudine. Sorridendoci su. Non è mica ingiusto farlo.

Non sappiamo con certezza quando Dalla e De Gregori si siano incontrati la prima volta. C’entra probabilmente la Rca, casa discografica di tutt’e due. Aveva sede a Roma, la città del Principe, e Dalla prese casa a Trastevere. Il rapporto precede di molto Banana Republic: i loro nomi sono accostati la prima volta in un live, Bologna 2 settembre 1974 (dal vivo), assieme a quelli di Antonello Venditti e Maria Monti. E in un vecchio filmato Rai li si vede su un palco a suonare “Anidride solforosa”, uscita nel 1975. Nello stesso anno, su Rimmel, “Pablo” è la prima canzone a portare la firma del duo, seguita l’anno dopo da “Giovane esploratore Tobia”. Intanto la fama cresceva, e Banana Republic ne è stato un suggello. Un momento di libertà, come dimostra la cover rockeggiante di “Gelato al limon” di Paolo Conte, allora non ancora famosissimo.

Poi, trent’anni dopo, Work in progress. Un reincontro atteso da tutti, pubblico e media, con la stessa voglia, eppure successo quasi per caso. Un’altro inedito, “Non basta saper cantare” (non proprio un capolavoro…), una rilettura spiritosa di “Just a gigolo” per prendersi un po’ in giro, e la necessaria carrellata di successi. Questa volta, la cornice sono stati i teatri, e una scenografia di Mimmo Paladino. Adesso, tutto ciò appartiene al passato. E chi non era presente, e ci teneva, può al massimo consolarsi con un video.

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Dalla&Roversi

Nei giornali di domani tutti citeranno la collaborazione tra Lucio Dalla e il poeta Roberto Roversi. Tre album – Il giorno aveva cinque teste, Anidride Solforosa, Automobili -e altrettanti spettacoli teatral-musicali, tra il 1973 e il 1976. Opere piene di idee, invenzioni, sperimentazioni. Eppure quei bei dischi degli anni Settanta non se li ricorda quasi più nessuno. Lo stesso Dalla sembrava volerne rimanere alla larga, nonostante negli anni abbia ripetutamente elogiato Roversi, ricordando la ricchezza del loro rapporto e ciò che aveva imparato dal poeta, che definiva il suo guru. Mettere da parte quei tre album, però, sarebbe un peccato. Perché  contengono cose bellissime, fatte con la convinzione di poter «piantare un coltello nella schiena del mondo». Il giudizio vale per le musiche di Dalla (e per le sue straordinarie prove vocali) quanto per le parole di Roversi. Roversi voleva scrivere canzoni civili. Lo fece. I testi sono impegnatissimi, e se c’è qualcosa che li unisce è proprio una costante critica politica, calata in un contesto ben preciso: l’Italia industrializzata, inquinata dai tubi di scappatoio e mangiata dalle ruspe, dominata dalla Fiat. E proprio Torino è uno sfondo ricorrente, fin dalla prima traccia de Il giorno aveva cinque teste (“Un’auto targata TO”). In questo senso, davvero Automobili è il culmine del percorso, con tanto di esilarante “Intervista con l’avvocato” (anche se al sottoscritto continua a piacere di più Anidride solforosa – altro titolo non casuale…).

Roberto Roversi

Tutti si ricordano degni anni Settanta come della stagione dei cantautori, un periodo in cui grande enfasi veniva posta sul lato poetico delle canzoni. Ma la collaborazione tra Dalla e Roversi fu lo stesso un caso unico. Roberto Roversi era un poeta affermato, pubblicato da editori come Einaudi e Rizzoli. Amico di Pasolini, con cui aveva fondato la rivista Officina, gestiva a Bologna la libreria antiquaria “Palmaverde”, in cui era facile incontrare grandi intellettuali. Dopo aver rappresentato la sua prima commedia al Piccolo Teatro di Milano, Roversi si mise in testa di scrivere una commedia musicale. Il produttore Renzo Cremonini lo mise in contatto con Dalla, che si dichiarò interessato e musicò i versi senza cambiare una virgola. Andarono avanti insieme per quattro anni, con Dalla che attingeva da fonti musicali vastissime, senza mai dimenticare né la dimensione teatrale né il retroterra jazz da cui proveniva. L’originalità è la cifra di queste canzoni. Secondo Roversi, «ogni disco è un progresso, è una identificazione di problemi, è il tentativo di approfondirli, di collocarli all’interno dello stato delle cose in cui venivano prodotti». Poi il poeta disse basta. Volle passare ad altro. Probabilmente, era rimasto scottato dalla vicenda di Automobili: lui voleva un disco che racchiudesse l’intero spettacolo “Il futuro dell’automobile” (diventato anche un programma tv, oggi perso in chissà quale archivio Rai), Dalla invece scelse di inciderne soltanto le canzoni. Per il cantante, però, Roversi dice di aver sempre provato amicizia e gratitudine. Tutti sappiamo che Dalla, morto oggi, non produceva musica decente da troppi anni. Eppure basterebbero queste composizioni, ora semisconosciute, a garantirne la grandezza artistica.

da Il giorno aveva cinque teste (1973)

Passato presente

Voilà, subito un pezzo complicato, tanto parodistico nella musica quanto duro nelle parole, politicamente colorate di un rosso intenso (come tutte le liriche di Roversi).

La bambina (l’inverno è neve, l’estate è sole)

Canzone paradossale, piccola e ben riuscita. Alla violenza dell’immagine iniziale – la colomba insanguinata – e del contesto guerresco, viene contrapposta l’innocenza e l’incoscienza di una bambina in campagna. Il risultato suona stranamente rilassato.

La canzone di Orlando

Più famosa nella (bella) versione dal vivo presente in Banana Republic, il live registrato con Francesco De Gregori. L’anser anser del ritornello è il nome latino dell’oca selvatica. Un’immagine che accentua il carattere medievale della canzone: il piumaggio dell’oca veniva usato per fare dardi e code delle frecce. Il testo è bellissimo e, vista l’originalità del canto, vale la pena riportarlo per intero.

«Se tutti i monti fossero seminati a grano, se i cavalli in branco ritornassero al piano, volando tra erbe e fiori, io raccontando i miei amori avrei ancora vent’anni. Anser anser che va. Ma nevica sulla mia mano e il mio cavallo è ormai lontano, notte e nebbia negli occhi, il ferro sui miei ginocchi, arco e freccia non scocchi. Anser anser che va. Acqua di luce alla foce, con una corsa veloce, bagnami con un sorriso solo. Se i monti sono foreste e le strade nelle tempeste, io mi fermerò in volo. E potrò raccontare la mia vita passata e ti saprò aspettare. Anser anser che va».

da Anidride solforosa (1975)

Anidride solforosa

Un capolavoro. La struttura del pezzo la spiega lo stesso cantante nel video (dal min. 2.44; poi comincia la canzone): da un lato il cicaleccio della provincia italiana – con un Dalla strepitoso nell’interpretare la vocine di donnette romagnole – dall’altro titoli di giornale. Una canzone d’amore sui generis, come mai se n’erano pensate.

La Borsa Valori

Pensate che i mercati siano matti? Lucio Dalla ve lo conferma, cantandoli. Il testo non è altro che un listino di borsa.

Carmen Colon

 (il video è spaventosamente brutto, scusate ma sul tubo non si trova altro). Un agghiacciante caso di cronaca. Carmen Colon, undici anni, scomparve il 16 novembre 1971 a Rochester, vicino New York. La ritrovarono morta due giorni dopo presso Churchville, a sei miglia di distanza. Fu la prima vittima del cosiddetto Alphabet Killer, colpevole di tre omicidi dal 1971 al 1973 (le altre due: Wanda Walkowicz a Webster, Michelle Maenza a Macedon).

Tu parlavi una lingua meravigliosa

«(…)Vorrei chiamarla e dirle: le volpi con le code incendiate non parlano ma gridano pazze fra gli alberi per il dolore. Sediamoci per terra oppure là sopra panchine imbiancate, sediamoci sopra un letto di foglie secche ed ascoltiamo il nostro cuore. Ci siamo scordati e perduti, ti ritrovo adesso all’improvviso dentro una piccola stazione, in un giorno grigio d’ottobre, tu non mi guardi neppure, io solo ho l’inferno nel cuore perché la vita è una goccia che scava la pietra del viso. E ogni mattina, ogni sera io parto e ritorno da solo come il ragazzo che ero. Non posso più bruciare in un volo, il treno arriva, si ferma la mia ombra sale parte scompare io ti vedo giovane ancora, come in un sogno dileguare».

Le parole crociate

Ripasso di storia patria post-unitaria, dalla parte dei perdenti. «Chi era Bava il beccaio? Bombardava Milano;\correva il Novantotto, oggi è un anno lontano.\I cavalli alla Scala, gli alpini in piazza Dom.\Attenzione: cavalleria piemontese, gli alpini di Val di Non. (…) Sei le colonne in fila, il gioco è terminato.\Nel bel prato d’Italia c’è odore di bruciato.\Un filo rosso lega tutte, tutte queste vicende.\Attenzione: dentro ci siamo tutti, è il potere che offende».

da Automobili (1976)

Intervista con l’Avvocato

Scat singing! Uno solo può essere l’Avvocato, tanto più che si parla di auto: Gianni Agnelli. Seguendo una strategia promozionale piuttosto folle, Dalla lo incontrò durante una puntata della Domenica Sportiva (ma sembra se lo ricordi solo il promoter Michele Mondella). Non sarebbe male recuperare anche quella trasmissione.

Nuvolari

Il pezzo più noto della trilogia – l’unico a riscuotere un successo vero all’epoca – nonché il primo brano su cui suonano insieme i futuri Stadio. Riarrangiato nei primi anni Novanta: la versione nuova la trovate in un video con un Dalla assai buffo.

Il motore del Duemila

 Assieme a “Nuvolari”, una delle poche canzoni roversiane che Dalla riprese dal vivo in seguito. Per lui era forse la migliore di tutte. Ironia della sorte, anni dopo la canzone finì per diventare la colonna sonora di uno spot della Fiat.

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Certi dischi sono tra i nostri migliori amici…

(per l’immagine si ringrazia Eleonora)

Confessiamolo: vogliamo più bene a certe canzoni che a molte persone. L’illustratore Grant Snider lo sa e ha voluto disegnare la sua relazione con quegli amici un po’ particolari che sono i dischi.

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Perfume Genius

Perfume Genius, al secolo  Mike Hadreas da Seattle, forse odora di genio per davvero. Finora ha pubblicato due album, bellissimi entrambi, basati su uno stile cantautorale scarno e molto notturno (che contrasta con la sua apparenza personale: di solito, in scena, usa trucco e camicie sgargianti). Lo strumento prediletto di Hadreas è il pianoforte, su cui compone canzoni piuttosto brevi e tremendamente sincere. Spesso non arrivano neanche a tre minuti: ma è abbastanza per commuovere l’ascoltatore e trascinarlo, in modo dolcissimo, in un mondo che non ha nulla di dolce, fatto di perversione, vizio, amore e vendetta. Mike Hadreas, omosessuale dichiarato (e nient’affatto spaventato dalla provocazione: basta guardare il video in basso), ha avuto una storia difficile. Prima alcolizzato, poi cocainomane, infine drogato di anfetamine. «Alla fine non era né divertente né sociale. Era tragico e basta. A tavola, in famiglia, nessuno sapeva cosa dirmi. “Hey Mike, com’è essere un drogato gay?”». Non ve lo racconteremmo se ciò non fosse al centro delle canzoni che scrive.  «Sia nella mia musica che nella vita reale, cerco sempre di parlare su situazioni e sentimenti senza vergogna», dice il cantante. La musica è la sua terapia. Perfume Genius ha trovato una formula a cui è impossibile restare indifferenti.  Learning, nel 2010, fu accolto come uno dei dischi più emozionanti dell’anno: Stereogum lo definì  «an elegant rumination on heartbreak and abuse». Hadreas sa narrare, e l’unico filtro che usa con chi lo sta a sentire è quello posto (non sempre) sui microfoni. Per rendersene conto, basta ascoltare “Mr. Peterson”, la storia di un insegnante delle superiori finito suicida, con cui il ragazzo Mike ebbe una relazione:  «He let me smoke weed in his truck / If I could convince him I loved him enough / He made me a tape of Joy Division / He told there was a part of him missing / When I was sixteen / He jumped off a building».

Learning ha un sound grezzo, poco attento all’alta fedeltà, tipico delle produzioni fatte in casa (ma il suo fascino, precisiamolo, viene anche da ciò). Put Your Back N 2 It, uscito quest’anno, è più levigato, ma non meno emozionante. Dura appena trenta minuti. Rispetto al suo predecessore, fa intravedere qualche spiraglio di luce. Non si preoccupa di essere soltanto una cronaca dei drammi personali di Hadreas, ma vuole andare oltre. Lo spiega lui stesso: «Ho cercato di esprimere sentimenti positivi. Non credo di essere in uno stato mentale diverso rispetto a quando ho scritto il primo disco, ma dove voglio arrivare è differente, così è stato istintivo scrivere molte dolci canzoni d’amore». Il risultato, ancora una volta, sfiora il sublime. Si va da momenti delicatissimi, segnati da un sussurro, a veri e propri crescendo di emozioni. Sempre con al centro il piano e il suo suono essenziale. «I will carry on with grace», canta Perfume Genius in “No tear”. Sembra una promessa mantenuta.

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Africa: 10 album del 2011

Seun Kuti

Il blog Africa is a country ha stilato una top ten dei dischi usciti nel Continente nero l’anno scorso. Tra novità e compilation storiche, c’è di tutto: dai ritmi tradizionali all’elettronica, dall’hip hop al funk. Ve la proponiamo (con un po’ di ritardo).

Tinariwen – Tassali

Del loro desert-rock abbiamo già parlato mesi fa.

FOKN Bois meet Irie Maffia Production – The FOKN DunaQuest In Budapest

I Fokn Bois sono una formazione hip hop originario del Ghana,  si definiscono così: «a raw, braggadocious, witty and eccentric super duo». Per la loro ultima uscita hanno deciso di accompagnarsi ad una coppia di dj di successo dell’underground ungherese, da sempre avvezzi a mischiare generi.

Seun Kuti – From Africa with fury: Rise

Dall’Africa con furore: «le nostre orecchie non impazziscono per i vostri discorsi, i nostri stomaci sono ancora vuoti». Ecco il figlio più giovane di Fela Kuti (nato nel 1983), che ha ereditato la guida della band del padre, gli Egypt 80.

Teck-Zilla – Afro J.E.T.S Club Project

Originario di Lagos, membro della Str8 Buttah Crew, Teck-Zilla è oggi all’opera in Canada, ma sempre su etichetta nigeriana. Questo il progetto dell’ultimo album: «un quasi documentario audio sul passato musicale e politico dell’Africa, a ritrmo di beat hip hop. Niente liriche, solo frammenti di grandi persone che hanno compiuto grandi passi per l’Africa, come Nkrumah, Fela Kuti, MKO Abiola, Sunny Ade, Patrice Lumumba, Nnamdi Azikiwe». L’album per intero si ascolta su BandCamp.

El Rego – El Rego (re-issue)

El Rego è stato definito «il padrino del funk nel Benin». Accompagnato dai Commandos, ha segnato la scena del soul africano per decenni. Quest’album è in realtà un’antologia delle sue cose migliori tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta.

Boubacar Traoré – Mali Denhou

Sahara blues. Da molto tempo celebre nel suo Mali, Boubacar Traoeré ha saputo guadagnarsi l’ammirazione dell’Europa e dell’America. Tra i suoi fan, un certo Martin Scorsese. Anche lui deve’essere convinto che «nell’idea di Mezzanotte c’è ogni genere di cosa».

Bambara Mystic Soul – The Raw Sound of Burkina Faso 1974-1979

Per ricordare l’epoca precedente ai colpi di stato militari che hanno martoriato il paese a sud del Sahara. Antologia celebrativa dei dieci anni dell’etichetta Analog Africa, svela un sound «viscerale e cosmopolita», frutto della miscela esplosiva tra Afro-Funk, ritmi islamici tradizionali e suoni afro-latini, contaminazioni nate grazie alla visita di gruppi cubani.

Blitz The Ambassador – Native Sun

Rapper ghanese, classe 1982, si è fatto strada dopo essersi trasferito negli Stati Uniti per motivi di studio, nel 2001. Attualmente vive a Brooklyn. Inizialmente portato per le arti visuali, ha poi sviluppato l’interesse per la musica grazie al fratello maggiore, che portò in casa una copia di  It Takes a Nation of Millions to Hold Us Back, il capolavoro dei Public Enemy.

Amerigo Gazaway – Fela Soul

Scopo del disco: «ricreare i beat di Jake One usando samples di Fela Kuti». Tutto ascoltabile su BandCamp.

Chief Boima presents Lone Stars: Hipco and Gbema Vol. 1

Chief Boima è un dj americano, originario della Sierra Leone. Hipco è l’hip hop cantato nell’inglese colloquiale che si parla nelle strade della Liberia. Gbema è il termine che indica la musica tradizionale prodotta in modo elettronico: si definiscono così ritmi diversi, generalmente molto veloci, influenzati dalla musica Bubu della Sierra Leone e dallo stile Shangaan sudafricano. Se v’incuriosisce, ascoltate tutto Lone Stars su BandCamp.

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Sleigh Bells: “Reign of terror”

Se volete avere un’idea precisa degli Sleigh Bells, l’immagine di copertina del loro secondo album vi aiuta quanto e più della musica. È tutto lì, in quel paio di Keds (non una marca a caso) insanguinate. Violenza, e contraddizioni violente. Un’idea che parte sin dal nome del gruppo:  campanelli della slitta (di Babbo Natale, presumiamo) che emettono frequenze urticanti. Nelle canzoni, nella brutalità sonora del noise pop, il concetto è altrettanto chiaro. Potenti riff di chitarra che vanno a sbattere contro beat marziali. Testi duri pronunciati con (relativa) dolcezza, mentre i cori sono quasi sempre lanci d’urla. Fanno casino persino le ballate (non mancano: “End of the line”, “Road to hell”, “You lost me”, ben occultate dietro il muro di suoni saturi). Non c’è dubbio, gli Sleigh Bells vogliono suonare forte. Non stupisce che il New York Times  descriva così l’avvio di un loro concerto: «drums and riffs, some demonically heavy marching band» (l’articolo ha un titolo significativo: «Enjoying the sweet pains of success». Presenta anche l’album in streaming). Guarda caso, l’album si apre con il rumoreggiare di una folla in delirio incitata dalla cantante, mentre una chitarra distorta inizia un pezzo, “True shred guitar”, che si rivelerà un pandemonio. Gli Sleigh Bells vogliono attaccare l’ascoltatore, scuoterlo. Eppure, c’è una contraddizione anche in ciò. L’ha notata la Bbc: «Attraverso l’intero disco c’è una costante voglia di volumi alti, ma alla fine il risultato è pop puro, con un appeal di massa che va ben oltre la scenetta hipster che fa parte della (leggermente irritante) campagna di marketing del duo». Una campagna in cui nulla è lasciato al caso (e che di recente è finalmente approdata in tv, al Saturday Night Live), come dimostra la succitata copertina. E si sa che, quando si è davvero bravi, anche il marketing diventa un’arte.

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Un documentario per Bob Marley

«Mio padre non era solo un uomo ma un danzatore dello spirito. Bisogna toccare quella vibrazione e non è qualcosa che si può ottenere recitando». L’ha affermato Rohan Marley, uno dei (molti) figli di Bob, dal palco di una conferenza stampa a Berlino, dove il documentario sul padre è stato presentato nell’ambito del festival cittadino. Marley è stato diretto da Kevin Macdonald, il bravo regista de L’ultimo re di Scozia. Macdonald è un grande fan della star giamaicana, per lui il musicista più influente di tutti. E il film, autorizzato e supportato dalla famiglia del cantante, vuole innanzitutto essere un’iniziazione alla sua musica. Vista la stoffa del regista, c’è da fidarsi.

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Il rap e la Primavera Araba

Il rapper tunisino El Général

La primavera araba ha una colonna sonora ben precisa: il rap. L’hip hop arabo è giovane, come giovani sono i ribelli che in meno di un anno hanno scosso regimi che stavano in piedi da decenni. Nel 2011 si è espanso in modo virale, con grande velocità, ma prima di allora non era granché diffuso. I Paesi in cui aveva avuto più successo erano il Marocco e la Palestina (vedi il caso di Dave Kirreh, arabo di Gerusalemme Est, che canta non solo i problemi con gli israeliani ma anche le divisioni tra Fatah e Hamas). Eppure, nel giro di pochi mesi, l’hip hop è diventato il genere musicale più adatto a veicolare il malcontento della popolazione. Un malcontento molto concreto, fatto di «povertà, aumenti dei prezzi del cibo, blackout, disoccupazione, repressione poliziesca e corruzione politica» (elenco del New York Times): i giovani arabi, in pratica, non vedono altro. Da sempre. E con la crisi economica globale, la situazione non poteva non precipitare. «L’hip hop arabo è una musica di lotta», conferma Deeb, 27 anni, al secolo Mohammed El Deeb, rapper in azione al Cairo (quando non è impegnato nel suo lavoro di… analista finanziario!).

(Deeb feat. Edd – Stand up Egyptian)

Deeb è stato uno dei primi ad esibirsi in piazza Tahir, durante le proteste dello scorso anno. Ma il nome diventato più celebre è quello di un rapper tunisino: El Général. Hamada Ben Amor, 22 anni, originario di Sfax (la seconda città della Tunisia), nelle sue rime non ha mai risparmiato critiche al regime. Con “Rais LeBled” (“Capo di Stato”) si è rivolto direttamente a Ben Alì, cantandogli in faccia tutta la corruzione del suo apparato. Risultato: un blitz di 40 poliziotti per arrestarlo, a gennaio 2011, mentre nel resto del paese infuriava la repressione dei moti per l’aumento del prezzo dei generi alimentari. Ma l’arresto di El Général non è stata che un’ulteriore miccia per la protesta. E alla fine Ben Ali è caduto, mentre le canzoni di El Général sono diventate degli inni rivoluzionari.

Insomma, il rap come chiamata alle armi. Perché? Perché è un modo di esprimersi nuovo, vicino alla strada, e può convogliarne gli umori e le frustrazioni. Inoltre, fa notare il New York Times,  «il rap usa uno stile oratorio: i rappers raccontano in una maniera diretta che taglia fuori i sotterfugi politici. Rappando si può simulare un discorso politico o un’invettiva, convenzioni retoriche che sono generalmente inaccessibili alla gioventù marginale che forma la base di questo movimento». In Tunisia come in Libia, in Egitto come in Senegal (fenomeni simili stanno affiorando nell’Africa subsahriana), i rapper sono diventati quasi dei rappresentanti politici, e i giovani si fidano della loro voce. Ma se questa valenza assumerà ancora più consistenza, i rapper dovranno continuare a rifiutare di assumere i ruoli che finora sono stati disponibili nell’arena politica. Bisogna ricominciare da capo, in ogni contesto. In quello strettamente discografico, è già così: il rap arabo sbuca in modo virale da ogni social media, dalle suonerie dei telefonini, dagli mp3 e dai mixtape. In Libia, ad esempio – dove la scena hip hop è concentrata soprattutto intorno a Bengasi – si è quasi all’anno zero: secondo Buch Larsen di Freemuse (interpellato dalla Bbc), «per la maggior parte non ci sono manager, etichette, neanche il copyright. La musica è diffusa direttamente via internet, principalmente su YouTube, Facebook e Twitter. Questi musicisti sono sbucati dal nulla. Si godono l’improvvisa libertà di produrre musica in proprio e metterla poi nei media internazionali».

(Khaled M., figlio di dissidenti anti-Gheddafi, vive a Chicago. La canzone incoraggia i manifestanti «dalla Tunisia alla Libia, dal Bahrain allo Yemen»)

“Libertà” e “internazionale” sono due parole chiave. La studiosa americana Lara N. Dotson-Renta fa notare che non solo l’hip hop arabo ha aiutato a mobilitare gli attivisti nei Paesi coinvolti dai movimenti pro-democrazia, ma ha aiutato a cementare i collegamenti tra la diaspora delle comunità arabe in Occidente e le relative nazioni d’origine. L’esempio perfetto è Omar Offendum, uno dei rapper arabi più noti. Figlio di siriani, vive a Los Angeles. Assieme all’iracheno-canadese The Narcicyst, ha composto “#January 25th”, un brano incentrato sulle proteste che hanno portato alla deposizione di Mubarak. La canzone è stata prodotta dal palestinese-americano Sami Matar, e vi appaiono Ayah, cantante palestinese-canadese, e gli afro-americani Mc Freeway e Amir Sulaiman. Basta elencare questi nomi per dare un’idea del messaggio: uniamoci, in nome del regime change democratico, e faremo la differenza. Con l’aiuto di un beatbox, e delle parole in rima. «L’hip hop è vicino alla cultura araba», ricorda Deeb: «è basato sulla poesia, e gli Arabi amano la poesia».

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