Lucio Dalla e me (e noi)

In un garage di una casa di Fondi, un paese all’inizio del Sud, è appeso un manifesto pubblicitario. Sta lì dalla metà degli anni Ottanta. In parte è coperto da vari attrezzi e scorie, la solita roba che si accumula nei garage. Il manifesto è una pubblicità di una ditta di latticini. Fotografato in panama e occhialini – la sua divisa tipica di quegli anni – Lucio Dalla guarda sorridente dal muro. Il réclame dice che se compri un tot di prodotti puoi vincere le sue cassette. O almeno credo che dica così: non ci ho mai fatto tanto caso, al réclame. Una sua cassetta l’avevamo già, e ci bastava. È per via di quella cassetta, The best of Lucio Dalla, che il manifesto è appeso in garage (e che io sto scrivendo queste righe). L’ha preso mio padre nell’alimentari dietro il castello. Siamo entrati nell’alimentari, io e mio padre, abbiamo riconosciuto quella faccia familiare e simpatica in vetrina, mio padre ha chiesto di staccarsi il poster e l’ha fatto. Io non ricordo di aver chiesto niente. Avrò avuto al massimo cinque anni. Non ho mai chiesto niente in vita mia, ho sempre sentito una vergogna immensa nel fare richieste. Poi la pubblicità doveva parermi brutta già allora. Però di sicuro avevo notato la faccia di Dalla, di sicuro gli avevo restituito un sorriso – senza certo pensare di portarmela a casa! Credo proprio sia stata un’iniziativa di mio padre. Ha chiesto al bottegaio, ha staccato il manifesto, l’ha attaccato in garage, punto. Siamo usciti dall’alimentari contenti per questa scemenza che, in quel momento, riguardava solo noi due.

Lucio Dalla è la presenza di cui serbo il ricordo più antico, a parte i parenti prossimi. Lucio Dalla c’è sempre stato. C’era la mia famiglia, e la cassetta The best of Lucio Dalla in macchina. Nella Delta, poi nella station wagon. Praticamente uno di famiglia pure lui, occhialini, basco, barba, strani versi, clarinetto, piano, tutto compreso. Era famosissimo, ma per me era come se lo conoscessimo solo noi, e dopo, un pochino, tutti gli altri (Dalla si vedeva poco anche in tv e non andava a Sanremo). Io non potevo rendermi conto. Avevo capito soltanto che c’era sempre qualcuno che andava di moda, c’erano tanti altri cantanti famosi e amati dai ragazzini. La radio trasmetteva altro, ma io della radio non sapevo nulla. Mai ascoltata. Inoltre il pop e il rock erano, nella visione paterna, lo sterco del demonio, né più né meno. La musica, per me, era soltanto quella cassetta rosata. Per lunghi, lunghissimi anni io e i miei non ci siamo preoccupati di sentire altro. Neanche nei lunghi viaggi autostradali per andare sulla neve. La mettevamo andando da Latina a Fondi e da Fondi a Latina ogni fine settimana. Sessanta chilometri di Via Appia, andata e ritorno, da “Futura” a “Mambo”. In mezzo, quasi tutti i classici (che potete riascoltare dal post qui sotto). Con al primo posto “L’anno che verrà”, un vero inno per la mia famiglia. Era la canzone preferita di tutti. Oggi sono convinto che “Com’è profondo il mare” sia superiore, ma forse l’emozione più profonda me la dà ancora quell’inconfondibile attacco di piano.

Mi è andata bene, a ripensarci. Potevo essere traviato per sempre da qualche bruttura commerciale, e commuovermi ancora oggi per della robaccia. Invece no. Il mio affetto per Dalla è ormai irrazionale, ma per fortuna alla base c’è della bellezza vera. Io e i miei ci eravamo attaccati a qualcosa di davvero bello. Le canzoni di Dalla sono uniche, non assomigliano a quelle di nessun altro. Ed era unico lui. In fondo, ci faceva simpatia anche la sua figura di ometto buffo, peloso, piccolo, strano, ironico, che quando cantava ogni tanto faceva strani rumori – lo scat singing! – e si divertiva a rifare l’eco ai versi – bellissimi – che aveva appena pronunciato (non siamo stati i soli. Basta pensare a Fellini, con cui Dalla era amico, come testimonia una bellissima chiacchierata in radio. In Ginger & Fred c’è una scena con dei sosia di Lucio Dalla, chiaramente è un omaggio: in quel periodo, al regista piaceva anche andare ai concerti del suo conterraneo). Era fuori dagli schemi, ed era questo che, in primis, attraeva mio padre. La simpatia per Dalla era uniforme da parte mia, di mia madre, di mio padre, e poi lo sarebbe stata da parte di mio fratello. È stato qualcosa che ci ha unito. Ci unisce ancora oggi, e mi dispiace molto ora non poter portare mai più mia madre a vedere un concerto di Lucio Dalla, meglio se in coppia con De Gregori. Anche se, dopo la morte di mio padre, ho sempre saputo che un’iniziativa simile sarebbe stata a fortissimo rischio lacrimoni, tipo quelli che abbiamo appena versato al telefono, io da Milano e lei da 712 chilometri più giù. Dalla e le sue canzoni hanno avuto un effetto unificante sulla mia famiglia, che si è sempre divertita a trovare mille motivi per litigare di continuo. Non è poco.

Per questo, mi sembrò naturale afferrare un’occasione per incontrarlo. Successe a Roma, all’Università La Sapienza. Una presentazione del libro con i suoi testi. Non scriveva grandi canzoni da anni, ma non importava. Non ricordo quasi nulla di quello che dissero Vincenzo Mollica e Giulio Ferroni (che non a caso ha scritto un commento sul Messaggero per la morte del cantante, svelando che avevano la stessa età). Quello che diceva Dalla non si capiva al 100%, il suo accento bolognese masticava le parole e ogni tanto le mangiava del tutto. Ricordo però chiaro il senso: la grande arte, la vera arte, è sempre popolare. Nasce dal popolo, è per il popolo. Un concetto che, prima di lui, è stato espresso da artisti ben più celebri: Picasso, per dirne solo uno. Dalla lo illustrò con un esempio spiazzante, in pieno stile dalliano: «Bjork è più vicina a Totò che a Barbra Streisand», proclamò gesticolando. Come dargli torto? Alla fine della conferenza, mi avvicinai alla cattedra con un cd in mano. L’album omonimo del 1979, quello perfetto, che si chiude proprio con “L’anno che verrà”. Volevo un autografo dal mio vecchio amico, mai visto così da vicino. Una richiesta un po’ infantile, non a caso. Mentre firmava, presi fiato e coraggio per dirglielo: «Sai Lucio, è colpa tua se ho detto la mia prima parolaccia. A tre anni avevo imparato a memoria “Disperato Erotico Stomp”, ripetevo “puttana” e i miei mi rimproveravano subito». Lui si girò divertito: «Ah! Mi hai dato una grande soddisfazione!» Disse proprio così, allungando la “a” di grande e trasformando la “z” di soddisfazione in “s”, come pretendeva il suo dialetto. Oggi rimango col ricordo di quella soddisfazione, che da sola pareggia le soddisfazioni che lui ha dato a me. Un’epoca se n’è andata, com’è giusto che sia. Non tornerei indietro, all’infanzia, per tutto l’oro del mondo. Ma potrei racchiuderne la parte buona in un nastro, per avere una risposta ogni volta che mi fermerò a chiedermi cosa sarà che fa crescere gli alberi, la felicità.

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3 Responses to Lucio Dalla e me (e noi)

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  2. ero Lucy says:

    Bel post, letto tutto d’un fiato! Complimenti.

  3. Grazie, a te e a tutti quelli che hanno apprezzato.

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